L’inganno dell’esistenza, perché la maggior parte delle persone non vive:
C’è
una presunzione di fondo, tanto diffusa quanto invisibile: credere che
la vita coincida con l’idea che ne abbiamo. Non è un errore ingenuo, è
una forma di autoassoluzione. Pensiamo che il semplice fatto di
“esserci” equivalga a vivere, quando in realtà stiamo solo occupando uno
spazio nel tempo, aderendo a un copione già scritto.
La vita
autentica non è garantita. Non lo è per nascita, non lo è per diritto,
non lo è per durata. La vita accade o non accade, su livelli che
sfuggono alla gestione razionale. È un fenomeno che non risponde alle
categorie con cui tentiamo di incasellarlo. Pretendere il contrario
significa ridurla a un concetto domestico, innocuo, controllabile. Ciò
che la maggior parte delle persone chiama “vita” è, più correttamente,
esistenza. L’esistenza è funzionale, ordinata, socialmente spendibile. È
la somma delle aspettative interiorizzate, delle proiezioni sul futuro,
delle giustificazioni retroattive sul passato. È una narrazione
coerente, ma profondamente anestetizzata. Serve a non sentire troppo.
L’esistenza
si attacca alle forme: ruoli, identità, status, appartenenze. Vive
nella firma delle cose, non nella loro sostanza. Essere qualcuno conta
più che essere presenti. Avere una definizione è più rassicurante che
attraversare il vuoto di non sapere chi si è. Così si scambia il nome
per la realtà, il titolo per l’esperienza, la rappresentazione per il
vissuto.
La mente è la grande complice di questo inganno. Non
cerca la verità, cerca stabilità. Ripete ciò che funziona, consolida ciò
che protegge, difende ciò che garantisce continuità. Le credenze non
nascono per illuminare, ma per sopravvivere. In questo senso, la mente
non è uno strumento di libertà, ma di adattamento.
Ed è qui la
frattura più scomoda: si può attraversare un’intera esistenza senza
incontrare mai la vita. Si può amare senza presenza, lavorare senza
senso, pensare senza coscienza. Si può accumulare esperienza senza mai
esporsi realmente a ciò che accade. Non perché manchino le occasioni, ma
perché manca il coraggio di restare senza appigli.
La vita
autentica non è rassicurante, né progressiva, né motivazionale. Non
promette crescita, non garantisce significato. Chiede solo una cosa:
presenza. E la presenza è costosa. Significa rinunciare al controllo,
sospendere le narrazioni, smettere di usare il pensiero come rifugio.
Significa esporsi all’istante senza sapere cosa ne verrà fuori.
In
una cultura che idolatra la performance, la pianificazione e
l’identità, vivere davvero è un atto sovversivo. Non produce risultati
misurabili, non genera consenso, non può essere certificato. Proprio per
questo viene evitato, ridicolizzato o spiritualizzato fino a diventare
innocuo.
Forse il problema non è che la vita sia difficile.
Forse il problema è che non siamo disposti a rinunciare all’esistenza che ci protegge.
E
finché continueremo a confondere l’una con l’altra, chiameremo “vita”
ciò che, in realtà, è solo una lunga, educata, sopravvivenza.
Antonio Ruben
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